Gli Ultrà della Roma Antica

Immaginate uno stadio grande quattro volte l’Olimpico, immaginate poi duecentomila tifosi presenti e quattro squadre in gara, a sfidarsi ogni volta in un perenne derby stracittadino, moltiplicato per due.

Immaginate anche una città di un milione di persone, tutte accomunate da una grande passione per lo sport, ma divise dal tifo per i colori di una squadra, un tifo che non risparmiava nessuno, dai più umili plebei fino all’imperatore, con un trasporto che andava spesso oltre il lecito.

Immaginate tutto questo e avrete il quadro di quanto accadeva a Roma ai tempi dell’impero, quando, per ospitare le competizioni sportive, si costruirono edifici imponenti come il Circo Massimo, dove si tenevano i giochi per eccellenza, quelli più amati dai romani: le corse dei carri.

Le follie dei tifosi

Durante quelle gare, l’atmosfera era quella che oggi si può respirare in una curva di ultrà nel giorno della stracittadina. Ci racconta Dione Crisostomo che i tifosi, durante le corse, perdevano completamente il senso della realtà, cadendo in una trance che spesso degenerava in tafferugli e scontri tra tifoserie.

Il fanatismo sfociava anche nella superstizione. Certi tifosi non esitavano a ricorrere a fatture e a formule magiche, in cui si invocavano demoni e spiriti, per chiedere la protezione nei confronti dell’auriga della propria fazione ed augurare tutto il male possibile agli avversari.

Tale invocazioni venivano incise su tavolette chiamate “defixiones tabellae”, come quella ritrovata in nord Africa, scritta da un sostenitore dei Rossi – o forse degli Azzurri – che diceva: “Io ti invoco o demone, chiunque tu sia, e ti chiedo ti tormentare i cavalli dei Verdi e dei Bianchi e di ucciderli e di far morire in uno scontro gli aurighi”.

Il tifo poteva assumere aspetti di puro fanatismo, capaci di generare anche eventi tragici, come quello raccontato da Plinio quando, in occasione del rogo funebre per il defunto Felix, auriga dei Rossi morto durante una gara, un tale in preda alla disperazione si gettò anch’egli nel rogo, morendo insieme al suo idolo.

Il tifo degli imperatori

Nemmeno gli imperatori rimanevano indifferenti al fascino del tifo. Condividere la stessa passione del popolo era anche una maniera per accrescere il proprio consenso. Se gli imperatori più equilibrati e diplomatici preferivano non dichiarare apertamente la propria fede verso una fazione, c’erano quelli che diedero dimostrazione di veri eccessi di faziosità.

Vitellio e Caracalla rimasero celebri per il modo crudele in cui manifestarono la loro fede verso la fazione degli Azzurri, anche attraverso veri e propri atti di violenza nei confronti degli avversari. Quando Caracalla assassinò il fratello Geta, ad esempio, fece uccidere anche tutti gli aurighi dei Verdi, la fazione per cui suo fratello tifava.

Caligola e Lucio Vero erano grandi tifosi dei Verdi, ma di loro si ricorda soprattutto la passione viscerale per i cavalli. Celebre l’amore, al limite della follia, di Caligola per il cavallo Incitatus, a cui donò – in base a quanto ci racconta Svetonio – una stalla di marmo e una greppia d’avorio, coperte di porpora e bardamenti di pietre preziose, oltre a una casa con tanto di servitù e mobilio. Si dice che volesse perfino candidarlo al senato

Lucio Vero, invece, aveva in casa una serie di preziosi boccali di cristallo firmati col nome del suo cavallo Volucer e quando quel cavallo morì, gli fece costruire un mausoleo.

L’organizzazione delle scuderie

Le quattro “factiones”, quella Verde, quella Azzurra, quella Bianca e quella Rossa, erano organizzate come le moderne società sportive, guidate da un direttore generale – il “dominus factionis” – e con un nutrito staff di professionisti, che ricoprivano i diversi incarichi all’interno della società.

Tra i ruoli di maggiore importanza c’era il selezionatore di aurighi e il procacciatore di cavalli, poi anche i medici veterinari, il preparatore atletico, oltre alle qualifiche di natura più tecnica come i sellarii, i meccanici incaricati di mettere a punto i carri, oppure gli “sparsores”, che si occupavano di rinfrescare aurighi e cavalli durante le corse.

Proprio come avviene oggi in una scuderia di Formula Uno, questo dispiegamento di uomini operava dietro le quinte ed erano indispensabili, ma il “front man”, amato dai tifosi, restava il pilota: l’auriga. Era lui che saliva alla ribalta, divenendo un vero e proprio idolo delle folle e contribuendo, con le sue vittorie, al prestigio ed alla ricchezza della propria fazione.

Il peso politico delle “factiones”

I romani sistematizzarono ed organizzarono i giochi come se fossero un aspetto importantissimo della politica, oltre a considerarli un formidabile strumento di propaganda. Tutti conosciamo il famoso motto di Giovenale “panem et circenses”, a indicare che le uniche due cose su cui doveva concentrarsi chi governava Roma fossero i giochi e il sostentamento della popolazione.

L’importanza via via crescente che presero le gare, fece anche crescere il peso politico – a volte anche di natura ricattatoria – che assunsero i gruppi organizzati di tifosi. Un peso decisamente maggiore di quello che hanno oggi alcune frange di ultrà ben introdotte politicamente. Quando poi la capitale da Roma si trasferì a Costantinopoli, avvenne l’episodio più clamoroso.

Nell’ippodromo di Costantinopoli, infatti, scoppiò la famigerata “rivolta di Nika”. “Nika” in greco significa “Vinci!” ed era il grido dei tifosi nei confronti dei propri beniamini. I supporter Verdi e Azzurri si erano fortemente politicizzati – i primi erano sostenitori di idee aristocratiche, i secondi sostenevano politiche più popolari – e militarizzati, decisero perciò di scatenare una sanguinosa battaglia, che finì per minacciare di morte lo stesso imperatore.

Dopo giorni di scontri e di saccheggi, che in parte distrussero anche la basilica di Santa Sofia, la rivolta fu poi sedata, lasciando però sul campo oltre trentacinquemila morti. Una strage immane, neanche lontanamente paragonabile anche al più sanguinoso scontro fra tifoserie moderne, come ad esempio quello avvenuto allo stadio Heysel nel 1985, che provocò trentanove vittime.

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