Informazione per tutti, informazione per nessuno

L’attacco di Hamas, la risposta di Israele. Partecipiamo, i social ce lo permettono. Gli avvenimenti più eclatanti diventano un’onda che non risparmia nessuno. Manca però un qualsiasi criterio distintivo a questa massa di reazioni e informazioni diffuse, ognuno può “inventarsi” fonte. Non è una novità, resta la sorpresa nel suo costante ripetersi. Stiamo però precipitando, quasi inavvertitamente, e in ogni caso incapaci di porre rimedi, verso l’azzeramento di un qualsiasi senso della “verità”, immersi come siamo in una nuvola indistinta di messaggi dentro cui i fatti finisco per disperdersi. Forse è il caso che con tecniche dolci ci si allontani sempre più da questo modello informativo e culturale.

Che era troppo l’ho capito solo dopo, molto più tardi. Prima però c’era stata la smania di muovermi, di uscire fuori di casa, come se fossi così pieno che altro non restava da fare, se non andare in strada. Quanto tempo era passato? Quattro giorni? Più o meno. Appena le notizie sono iniziate a rimbalzare in rete, non ho più staccato l’attenzione da quanto stava accadendo in Israele, con l’attacco di Hamas dalla Striscia di Gaza. Un numero incredibile di morti civili, esecuzioni sommarie, rapimenti, sevizie.

I video girati dai cellulari di gente comune e prese di sorpresa hanno invaso la rete. Immagini dell’orrore e al tempo stesso imprecise. Con difficoltà si comprendeva il contesto, quanto accaduto prima e quale sarebbe stata la sorte dei rapiti dal gruppo terroristico. Corpi morti a terra, decine di sacchi con i cadaveri delle vittime, macchie di sangue sui muri. Non riuscivo a staccare l’attenzione da quanto andavo vivendo. L’eccitazione di poter vedere lo svolgersi degli eventi, secondo una logica narrativa, mi dominava. La testa era persa nel telefonino consultato compulsivamente. Due giorni dopo l’attacco di Hamas, da Tel Aviv è partita la controffensiva, l’obiettivo è eliminare l’organizzazione terroristica, liberare gli ostaggi israeliani prigionieri nella Striscia. I bombardamenti ancora non si fermano. Il numero delle vittime continua a crescere.

A spostare qualcosa dentro l’orizzonte delle proprie considerazioni è lo sguardo diretto ai civili insanguinati, catturati ad ogni età, maltrattati da uomini in divisa armati dalla testa ai piedi. Non mi sono perso un minuto di questa lunga maratona di sangue che è seguitata con i terribili annunci israeliani. I propositi di vendetta hanno preso subito corpo, la destra al potere s’era fatta sorprendere nell’attacco, ora però chiamava i riservisti e inviava un numero enorme di carri armati, per rispedire indietro Hamas o eliminarlo del tutto, e stabilire un controllo militare sulla Striscia di Gaza.
Un assedio, in un fazzoletto di terra dove vivono due milioni di civili, l’acqua viene tagliata, l’elettricità anche, il cibo non può entrare da fuori.

Dal cielo i caccia lasciano cadere i loro missili su quelli che gli israeliani chiamano punti sensibili. Come è oramai noto, si tratta di una precisione approssimativa, le immagini ritraggono una città sconvolta e distrutta, palazzi e strade abbattute, il profilo di Gaza è quello di una città colpita da un potente terremoto. Ragazzi corrono in strada con dei materassi in testa, in cerca di un qualche rifugio sicuro, dove le bombe israeliane non arrivano. Israele vuole riprendere il controllo totale, ed è pronta ad invadere con le truppe di terra. Anzi, ha già invaso.

Leggo, guardo, vedo tutto questo, seguendo account nazionali e internazionali. Gli avvenimenti si svolgono sotto i miei occhi, e questo mi dona un certo piacere. Non mi basta, però. Me ne sto sempre accucciato, il collo in avanti, sullo schermo del mio cellulare, e le mie sensazioni, le mie percezioni del mondo, passano completamente attraverso quel piccolo schermo, come se null’altro esistesse.

Il “troppo” a cui mi sono esposto però non era ancora giunto. La parte più importante, in termini quantitativi, che mi ha condotto verso reazioni pari a somma zero, è da considerarsi la pioggia di commenti e analisi da parte di chiunque. Spesso roba copiata da uno all’altro account. Giudizi certi, scoperte banalissime, e l’irrefrenabile schierarsi da una parte o d’altra, cercando di dare una qualche copertura etica alle proprie prese di posizione. Studiosi e analisti, politici e gente comune, attori e intrattenitori, giornalisti di ogni tipo, e l’elenco potrebbe continuare, da ogni parte, tutti avevano da esprimere la loro posizione. Insieme a coloro che non si sono per nulla tirati indietro a illuminare e rendere presente da che parte stavano, ci sono anche i silenti, coloro che assistono e seguono, scrollando sul proprio dispositivo in cerca di novità, di foto e video, di thread che spieghino quanto non si capisce.

Partecipiamo, i social ce lo permettono. Gli avvenimenti più eclatanti diventano un’onda che non risparmia nessuno. Manca però un qualsiasi criterio distintivo a questa massa di reazioni e informazioni diffuse, ognuno può “inventarsi” fonte. Lo sappiamo, lo so. Non è una novità, resta la sorpresa nel suo costante ripetersi. Stiamo però precipitando, quasi inavvertitamente, e in ogni caso incapaci di porre rimedi, verso l’azzeramento di un qualsiasi senso della “verità”, immersi come siamo in una nuvola indistinta di messaggi dentro cui i fatti finisco per disperdersi.

È stata, ed è ossessiva, e imbarazzante la discussione sui bambini trucidati nel kibbutz di Kfar Aza, in un continuo dibattere se fossero stati decapitati o meno. Come se si potesse mettere da parte o svalutare quell’orribile carneficina, come se non valesse in sé, perché anche qualora si dovesse considerare la loro morte, ci sarebbe stato qualcuno pronto a ricordarti le vittime palestinesi. Quando è evidente che ci sono livelli differenti di lettura dei fenomeni e non dovrebbe essere difficile da convenire che la fine di un ragazzino o ragazzina è sempre una tragedia.

Io non ho visto quasi nulla attraverso il televisore, di quanto stava accadendo. Mi sono però ricordato di quando cadde il Muro di Berlino e ancor di più della notte in attesa dell’attacco americano in Kuwait. Eventi storico mediatici, come quello di questi giorni, che ti tengono sulla soglia, con un livello di partecipazione che va per accumulo, tanto che ad un certo punto è “troppo” e “spegni”, quanto hai visto “può non esistere più”.
Si crea una sfasatura tra la realtà e l’esperienza, che corrisponde alla situazione paradossale dello spettatore le cui emozioni si intensificano, ma possono al tempo stesso con facilità raffreddarsi, per passare ad altro.

Non ne possiamo più, e spesso perché saturi, anche se c’è chi continua a “lavorare” per giorni e giorni sui social, combatte una battaglia per affermare se stesso, completamente distaccato dal desiderio di una comprensione più ampia, e indifferente alla possibilità di considerare il resto degli utenti, anche coloro che la vedono diversamente, come un “noi”: ognuno porta avanti una sua guerra personale.
Insieme agli “assoldati” dai social ci stanno coloro che desistono, mollano e non sanno all’inizio nemmeno bene per quale ragione. Solo dopo, per esempio, io ho compreso che non ce la facevo più a seguire.

Il problema è che tutto ciò ha un peso e un riflesso non piccolo sulla nostra convivenza, e sull’andamento e il formarsi dell’opinione pubblica. La dinamica attraverso cui ci sono forma una convinzione finisce per essere completamente separata dalla realtà, trasformando l’intero dibattito una polarizzazione dove, come già detto, in primo piano c’è il proprio “io”. Tutto questo non mi piace, e non mi fa ben sperare. Forse è il caso che con tecniche dolci ci si allontani sempre più da questo modello informativo e culturale.

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