Librerie che chiudono e librerie che apriranno

La libreria Odradek annuncia la chiusura, ma la “impresa libreria” si vende più di prima. Basta guardare i dati. E finanziare l’educazione alla lettura non si fa per forza dando soldi alle librerie.

 

“Odradek non è più sostenibile, né economicamente, né umanamente”.
Con queste parole, i librai di Odradek hanno annunciato via Facebook qualche giorno fa il progetto di chiudere i battenti della loro libreria storica nel centro di Roma, in via dei Banchi Vecchi, entro il 6 gennaio 2023.
Segue una spiegazione articolata sul perché e come si sia arrivati a questa conclusione, dopo 25 anni di attività, e si scatena on line e nelle chat il dibattito su “un’altra libreria ha chiuso, dove arriveremo signora mia?”. Ognuno vuole dire la sua, specialmente giornalisti, librai ed editori, nessuno tace ma qualcosa nel coro di voci a supporto appare stonato. Proviamo a capire cosa.

I lettori invecchiano e diminuiscono, ma i libri aumentano

Odradek chiude dopo 25 anni di attività e i librai segnalano tra le cause la mancanza di un ricambio di lettori: invecchiano, muoiono, non ne vengono nuovi. Ogni lettore è effettivamente una creatura preziosa per una libreria e in Italia ce ne sono pochi, come testimoniano tutti i rapporti sulla lettura degli ultimi anni. Lo conferma il Rapporto AIE sull’editoria per il 2021 e primi 6 mesi del 2022: i lettori in Italia vanno diminuendo di numero (dal 59% del 2020 al 56% 2021). E lo conferma il dato anagrafico: i lettori invecchiano, come invecchia il Paese, sempre per lo stesso rapporto che registra in più un calo nel numero di lettori della fascia 0-5 anni.

I numeri, però, bisogna saperli leggere, quasi come i libri, e se li leggiamo con la stessa attenzione con cui si legge un post su Facebook invece rischiamo di perderci tutta la verità che contengono. È lo stesso Osservatorio AIE che segnala: i lettori diminuiscono ma i lettori forti leggono più libri (2.5 in più anno su anno); i lettori giovanissimi (quei 0-5 anni, zoccolo duro in crescita da un decennio almeno) diminuiscono, ma la produzione di libri in quella fascia d’età aumenta; il mercato librario ha una flessione sul numero di copie vendute, ma in totale una crescita del 10% anno su anno per due anni consecutivi (2021 su 2020 e 2020 su 2019).

Il rapporto dice che i lettori non comprano solo in libreria, l’e-commerce cresce, che i libri aumentano di numero, a scaffale, ma diminuiscono di copie per titolo, come se le novità editoriali funzionassero da finanziaria per le case editrici medie e grandi (e in effetti anche questo ruolo assolvono, far incassare gli anticipi sulle vendite!); che crescono le disuguaglianze: si comprano più libri per meno bambini, più libri per meno lettori forti.
Tutto ciò danneggia la libreria che fatica a trovare il proprio lettore solitario a fronte di investimenti che salgono per le forniture, ma non il mercato editoriale, che è più prospero che nel 2019.

Da una parte, gli editori sanno che l’e-commerce fa crescere le vendite, non i lettori e orientano da anni i propri sforzi a sostegno delle librerie indipendenti perché costituiscono i veri presidi culturali in cui agisce la promozione editoriale che consente la coda lunga dei libri. Dall’altra passano tutti a Messaggerie, la principale distribuzione italiana, quasi un monopolio, ben consapevoli che con una distribuzione forte, ben organizzata, possono finalmente accedere a dati di vendita certi, poco importa se i margini di contrattazione per gli indipendenti si riducono fino a sparire; fanno accordi con Amazon per la vendita diretta (tutti, pochissimi esclusi), perché vivono nella stessa realtà in cui viviamo noi, e non in un universo parallelo in cui la gente va allegramente in bicicletta per le strade – libere da smog – in centro per vedere che c’è di nuovo in libreria.

 

Una libreria non è una rivendita di libri

Se fosse vera l’equazione che “meno lettori=meno libri venduti=riduzione del mercato librario”, saremmo davanti a chiusure continue e nessuna nuova apertura. Ma i fatti smentiscono questa equazione: si aprono in Italia più librerie che mai, come testimonia a fine luglio 2022 Il Giornale della libreria in un articolo che parla delle ampie espansioni delle catene librarie. Mondadori, Libraccio, Giunti: non manca nessuno e tutti estendono l’offerta includendo spazi polifunzionali e mini specializzate per bambini e ragazzi all’interno del punto vendita generalista. Sembra un’affermazione senza senso, ma a guardare i dati delle chiusure e a quelli del mercato ci troviamo di fronte a una realtà difficile da negare: un’altra libreria chiude, ma l’impresa libreria si vende più di prima.

Per capire le dimensioni del fenomeno basta osservare le reazioni all’annuncio di Odradek: giornalisti famosi che si propongono di andare a spendere mille euro in blocco (Mentana), circolazione in tutte le chat di attivisti urbani, centinaia di contatti commossi che ricordano i giorni passati in libreria. La verità è che se vendesse solo libri, una libreria sarebbe esattamente come un supermercato, un’edicola, un e-commerce, e nessuno si straccerebbe le vesti per una nuova chiusura. Solo la libreria però è un’impresa con interessi commerciali nella creazione di una comunità culturale.

Che sia presidio culturale più o meno storico, sta di fatto che la libreria viene sostenuta oggi più del periodo pre-Covid. Lo riconoscono anche i librai di Odradek, e aggiungono che purtroppo non basta: in questi due anni di Covid le librerie sono state aperte mentre altri esercizi commerciali erano chiusi, sovvenzionate da finanziamenti pubblici mentre altri ricevevano rincari, sostenute con progetti di vendita alle scuole dagli editori stessi. Ciò non basta perché quello che accomuna queste forme di tutela è che il sostegno alle librerie è in realtà sostegno alla vendita del libro. La libreria invece è un’impresa culturale complessa e la vendita del libro è solo uno dei pilastri che la tiene in piedi.

La consapevolezza di avere tra gli scaffali un bene immateriale insieme a più beni materiali dovrebbe guidare nel riconoscere presìdi e no, uomini e no, ma se guardiamo ai bandi pubblici, quello della Regione Lazio ad esempio, le librerie hanno avuto finanziamenti per due anni consecutivi se dimostravano di avere il 50% di fatturato in vendita di libri; se prendiamo i bollini di qualità, quello della Direzione dei Beni Culturali ad esempio, che ha istituito l’Albo delle librerie di qualità, tra i requisiti troviamo il 60% di fatturato di vendita libri. Gli editori con #ioleggoperché hanno sostenuto le librerie attraverso i gemellaggi con le scuole per vendere libri. Sembra che riusciamo a riconoscere la libreria solo se vende soprattutto libri e allo stesso tempo che sostenere la vendita di libri come attività prevalente non stia salvando le librerie esistenti dalla chiusura.

Investire nella lettura non significa dare soldi alle librerie

In pratica, investiamo nel libro, mentre dovremmo investire nel bene immateriale su cui la libreria fattura: dovremmo investire nella lettura. Per essa vale la pena entrare in una libreria piuttosto che in un supermercato. Meglio ancora, dovremmo investire nell’educazione alla lettura, poiché è questo il bene immateriale che la libreria espone a scaffale: la possibilità di scegliere, la guida nella persona del libraio/libraia, la sua democraticità, la comunità che intorno all’oggetto libro può raccogliersi. L’educazione alla lettura tutta sulle spalle del libraio/libraia non è un’impresa sostenibile, è per questa attività che non basta riconoscere fondi a chi vende una percentuale di libri.

Un Piano Nazionale per la lettura non esiste. Abbiamo alcuni strumenti per le imprese del libro (ad esempio la legge Levi sul massimo sconto applicabile), ma per i cittadini che leggono e per la pubblica utilità della lettura nessuna idea. Eppure per aumentare i lettori, che non nascono sotto i cavoli come i bambini, sembra semplice la formula di investire sulle biblioteche di quartiere. Per aumentare i presidi culturali sul territorio soprattutto là dove gli equilibri economici vengono a cadere – il centro, il turismo, la gentrificazione – sembra chiaro che serva agire sul territorio, attraverso l’edilizia pubblica, attraverso un piano urbanistico di sviluppo delle imprese. Per aumentare la distribuzione a tutte le fasce di popolazione, per contrastare appunto disuguaglianze pericolose alla stessa tenuta sociale (ricordate? più libri per meno bambini ci dice l’AIE) sembra un buon piano agevolare la crescita di realtà editoriali in grado di competere senza le novità editoriali usate come strumento finanziario: sostenere gli editori nell’accesso al credito, finanziamenti a fondo perduto, riduzione del costo del lavoro culturale.

In ognuno di questi interventi non è previsto distribuire soldi a pioggia alle librerie perché comprino libri, statalizzare le librerie esistenti o crearne altre con un bollino di qualità assegnato dallo Stato: avremmo solo un’altra distorsione di un mercato che è in continua trasformazione, perché la lettura è un bene comune, la libreria no, è un’impresa e come tale si relaziona col presente e col futuro.

La libreria del Natale futuro

La libreria Odradek chiude dopo 25 anni (nota bene: 25) di attività,  in cui i librai si sono autosfruttati, lo dichiarano apertamente. 25 anni di lavoro sottopagato sono tanti: la rinuncia di adesso è emotiva, non è solo economica. Per spiegare questa chiusura, il calo dei lettori e la gentrificazione del centro storico non bastano. Questi professionisti avevano sicuramente tutti gli strumenti culturali – se non economici – per affrontare un nuovo cambiamento, ma è un’impresa personale, e non sembra che vogliano imbarcarcisi.

Non conosco libraio o libraia – qualunque sia il numero di libri che vende – che non sia sposata al proprio lavoro. Ma se guardiamo con le lenti dell’attualità vediamo altro: le grandi dimissioni, lo smart working, le imprese culturali sempre più digitali e sempre meno fisiche. Forse ci accorgiamo che il lavoratore della libreria fa parte esattamente come tutti gli altri di un mondo in cui non basta più avere abbracciato per una volta una missione per rinunciare a tutto il resto. E se la missione era vendere libri e ora non lo è più, forse quell’abbraccio non basta e la missione può essere abbandonata.

 La libreria del Natale futuro non è un fantasma del passato, un luogo traboccante di polvere e sostegni pubblici, in cui perpetuare lo sfruttamento o l’auto sfruttamento in nome di un culto del ‘900. La immagino come un’impresa culturale, in cui i libri si animano e parlano ai lettori attraverso la viva voce degli autori, nei luoghi fisici e sui social, la immagino come un’impresa commerciale in cui il libraio e la libraia fatturano per le loro competenze messe a disposizione di enti e istituzioni che aprono presidi culturali sul territorio, la immagino come un luogo di bellezza in cui cercare bellezza, sotto casa, e in cui trovare comunità, scoprendo che ci piacciono le stesse letture, e perché no, le stesse serie, gli stessi giochi, le stesse opere. Pagando con il Pos o in contanti, non importa. È lì che vorremmo tornare tutti, un luogo animato di possibilità di incontri con le persone, oltreché con le storie.

Magari è utopistico, ma più concreto che finanziare l’educazione alla lettura con la vendita di libri.

[Marina Ricciardi si occupa di interazione digitale e ha collaborato come consulente per librerie specializzate per bambini e ragazzi per 8 anni. Da almeno 7 anni sostiene attivamente come volontaria la biblioteca scolastica e di quartiere Bibliofeb]

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